AR_5643__2010

Relazioni: Don José Luis Plascencia

Don José Luis Plascencia SDB

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Plascencia_16-01-14

1.- Introduzione

Tutti noi siamo cristiani, e quindi, la nostra fede e il senso della nostra vita sono centrati in Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto Uomo; eredi di una tradizione che si è arricchita nel corso di 2000 anni. Vorrei invitarvi, per cominciare, a metterci nella situazione dei contemporanei di Gesù, come se fossimo un membro in più del popolo di Israele, dinanzi a questo “Ebreo marginale”, chiamato Gesù di Nazareth, un predicatore itinerante sulle strade polverose della Galilea del primo secolo della nostra era. Lo faremo, naturalmente, seguendo la linea del Nuovo Testamento, sapendo pure di non avere una “cronaca” della vita di Gesù, e che i Vangeli sono testimonianze di fede che, tuttavia, si basano sulla realtà storica del Signore.

2.- “…Chi è quest’uomo?”

Gesù di Nazaret si presenta come una figura affascinante, che attrae le folle, che si entusiasmano tanto nell’ascoltarlo, che si dimenticano in certi casi perfino di mangiare. La sua voce, bella e forte (a volte lo ascoltavano migliaia di persone), trasmette un messaggio che, prima di tutto, colpisce per l’autorità con la quale lo esprime: si tratta di un linguaggio “diversi da quello degli scribi e dei farisei” (Mc 1, 27); perfino gli ignoranti soldati riconoscono: “nessuno ha mai parlato come quest’uomo” (Gv 7, 46): un’autorità che non è imposizione o intransigenza, ma che piuttosto infonde sicurezza e fiducia in chi lo ascolta, per la sicurezza con la quale si esprime, anche quando le sue parole contrastano con la mentalità convenzionale del suo tempo.

Insieme a questa autorità, è affascinante la concretezza con cui si esprime: non è complicato o astratto, ma parla semplicemente, in modo che tutti possano capire, anche i piccoli e gli ignoranti; privilegiando uno strumento che permette di ricordare meglio quello che hanno sentito: gli esempi della vita di ogni giorno – sia la vita degli uomini che delle donne, sia degli adulti che dei bambini -: principalmente utilizzando le parabole, uno degli elementi meglio “affermati” nella cristologia pre-pasquale.

Questo modo di parlare, però, non elimina lo sforzo della propria riflessione: piuttosto invita ad essa e la rende necessaria: in modo che molti, pur sentendo, non comprendono (Cfr. Mc 4, 12 e par.); è necessario coinvolgere la mente (evitando la superficialità) e il cuore, sede dei sentimenti e pertanto, nucleo della conversione. In caso contrario, la sua parola sarà come un seme che cade sulla strada e che, essendo calpestato dai passanti o mangiato dagli uccelli, non produce alcun frutto (cfr. Mc 4, 4); o anche, essendo fraintesa, causerà il suo rifiuto, anche in coloro che lo seguono. (cfr. Gv 6)

Questo rifiuto, però, non è causato semplicemente dall’incomprensione, ma perché il suo insegnamento non corrisponde a ciò che gli ebrei erano abituati a sentire, e i loro capi, a proclamare. Il suo atteggiamento di libertà è inseparabile dall’autorità con cui Gesù parla; una libertà affascinante, senza dubbio, ma anche sconcertante, che non è ammanettata dalle convenzioni familiari, sociali e anche religiose della tradizione ebraica. A questo proposito, basta ricordare il discorso della montagna (cfr. Mt 5-7), con le contrapposizioni che Gesù stabilisce tra il suo messaggio e “ciò che è stato detto anticamente”: si tratta, nientemeno, che dei testi della Torah, la Legge di Dio!

Questo atteggiamento di Gesù si rivela, maggiormente, nel suo modo di vivere: va con ogni tipo di persona; a volte lo troviamo a mangiare nella casa di farisei e dottori della legge (almeno due volte: Lc 7, 36-50 , e 11, 37-54). Tuttavia, ciò che provoca più scandalo è la sua predilezione a “frequentare cattive compagnie”1, al punto che si coniò un’espressione offensiva per descrivere questo modo di fare: “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11, 19), che l’evangelista mette in bocca a Gesù! Ancora: forse, dopo 2000 anni, siamo troppo abituati a vedere Gesù “dogmaticamente”… Dinanzi a questo atteggiamento di “galileo marginale”, come avremmo reagito noi? Avremmo creduto in lui? Certamente è facile criticare i suoi nemici dalla nostra prospettiva; più difficile, senza dubbio, è metterci al loro posto…

E’ innegabile, inoltre, che l’autorità del suo linguaggio e la novità della sua “prassi”, tanto nuova e per alcuni così scandalosa, si vedono supportati – e in qualche modo, contrastati – dalle azioni che realizza in nome di Dio: vale a dire, i miracoli (che l’evangelista Giovanni chiama, da un’altra prospettiva teologica, “segni”). A questo proposito, è molto importante l’incontro di Gesù con i discepoli di Giovanni il Battista, che, dal carcere, dove è in costante pericolo di morte (come del resto si verificherà, cfr. Mc 6, 17-29 e par.) , gli manda a chiedere: “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11, 3). Gesù risponde facendo vedere le sue azioni: San Luca dice che “in quel tempo (Gesù) guarì molti dalle loro malattie, dalle infermità e dagli spiriti maligni, e diede la vista a molti ciechi” (Lc 7, 21), ma soprattutto sottolineando il segno per eccellenza del suo messianismo: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, e ai poveri è predicata la buona novella» (Lc 7, 22), e conclude mettendo in relazione questi” segni “, con la sua predicazione e le sue azioni sconcertanti: “Beato colui che non si scandalizza di me!”(v. 23). Questo rapporto tra le sue opere e la sua più profonda identità culmina nel Vangelo di Giovanni, perché Gesù indica la radice ultima di questo modo di parlare e di agire: il suo carattere filiale. “Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre” (Gv 10, 37-38). Tutto questo è sintetizzato nelle Costituzioni salesiane in una frase breve, ma di alta densità: “la predilezione (di Gesù) per i piccoli e i poveri; la sollecitudine nel predicare, guarire e salvare, spinto dall’urgenza del Regno che viene” (C 11).

Dinanzi a queste opere straordinarie di Gesù (miracoli / segni), la reazione immediata è, ancora una volta: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?” (Mc 4, 41).

Approfondito nel messaggio inviato a Giovanni attraverso i suoi discepoli, il significato che Gesù stesso dà a questi segni / miracoli conduce al nucleo della sua missione: “i poveri sono evangelizzati”. Gesù è pienamente consapevole di una missione: mostrare, rendere visibile, “tangibile”, l’amore e la misericordia di un Dio che è Abbà: Padre; ancor più, “Papà”. Tale amore e misericordia si fanno realtà in un doppio atteggiamento (che deve essere distinto, ma non assolutamente separato): in primo luogo, la sua solidarietà con i più disprezzati del popolo perché considerati come lontani da Dio. La sua sola presenza in mezzo a loro era già un “segno” dell’amore del Padre e, inevitabilmente, anche un motivo di scandalo; ma la cosa più sconcertante era che questa solidarietà aveva come scopo quello di realizzare nella sua vita il dono di Dio per eccellenza, quello che poteva venire solo da Lui: la grazia, nella forma concreta del perdono gratuito. Non era solo l’andare con i peccatori e il mangiare con loro quello che scandalizzava, ma soprattutto ciò che questo implicava, e che perfino li fa esclamare: «Perché costui parla così? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo? “(Mc 2, 7). In tutte queste azioni, Gesù praticamente si sta mettendo al posto di Dio, e suscita, come sempre, la domanda: Chi è costui che perdona perfino i peccati?”(Lc 7, 49).

Inoltre, incontrandoci con Gesù di Nazareth, non lo vediamo mai da solo; è sempre accompagnato dai suoi amici, i “discepoli”, di cui Marco dice: “Chiamò quelli che volle, ed essi andarono con lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni “(Mc 3, 13-14). Questa sequela di Gesù nel discepolato non è solo fonte e esempio per la spiritualità cristiana, ma ha una “valenza teologica” che è necessario sfruttare.

Alcuni anni fa, il Rettor Maggiore scrisse nel Bollettino Salesiano: “Ricordando la frase di Marco, il discepolato implica, essenzialmente, due aspetti: la convivenza con Gesù, la crescente familiarità ed amicizia con lui, e la partecipazione alla sua missione: l’annuncio del Regno di Dio, accompagnato dai ‘segni’ che lo autenticano”2 E continua:

“Si tratta di un tema relativamente nuovo, dato che tradizionalmente si considerava la sequela di Gesù in chiave soprattutto morale e spirituale, oggi invece ha ricuperato tutta la sua valenza biblica e teologica, tanto che lo si considera uno degli elementi fondamentali che permettono approfondire il Mistero di Gesù, il Figlio di Dio, durante la sua vita mortale.

A prima vista sembrerebbe che Gesù si comporti come un rabbi, un maestro come tutti gli altri. Eppure le differenze sono molto grandi. Nessuno, per esempio, può chiedere a Gesù che lo accolga tra i suoi discepoli: ‘Non siete voi che mi avete scelto, sono io che ho scelto voi’ (Gv 15, 16). Inoltre, seguire Gesù significa lasciare tutto: i propri beni, la propria professione, anche la famiglia: l’esigenza di Gesù è superiore a quella di Elia quando chiama alla missione profetica il suo successore, Eliseo (Lc 9, 59-62 e Mt 8, 21-22 a confronto con 1 Re 19, 19-21). Non tocca solo momenti di insegnamento, ma abbraccia tutta la vita, condividendo con Gesù la precarietà della sua vita itinerante, le difficoltà e i pericoli, compresa la minaccia di persecuzione e di morte.

Tutto questo può esigerlo solamente Qualcuno che è più di un semplice uomo; solo Dio può esigere di andare oltre i vincoli umani più sacri: ‘Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me; chi ama suo figlio o sua figlia più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce e viene dietro di me non è degno di me’ (Mt 10, 37-38)”3.

Ancora una volta, appare qui la domanda: “Chi è questo che vuole cambiare tutta la mia vita?”. Ancora di più: è Gesù stesso che rivolge loro questa domanda, in un momento decisivo del suo ministero: i tre vangeli sinottici presentano questa “svolta” nella vita del Signore, a partire dalla quale egli comincia ad annunciare loro la sua passione e la morte violenta. “Gesù e i suoi discepoli partirono verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: ‘Chi dice la gente che io sia?’ Ed essi gli risposero: ‘Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia e altri uno dei profeti’ . E lui disse: ‘E voi, chi dite che io sia?’ Pietro gli rispose: ‘Tu sei il Cristo’ “(Mc 8 , 27-30, cfr. con diversi particolari, Mt 16 , 13-20, Luca 9 , 18-21 ). Le risposte precedenti, nella loro inesattezza, puntano su una figura tipica del Vecchio Testamento: il profeta, caratterizzato non come colui che annuncia il futuro o come chi denuncia situazioni di ingiustizia e di peccato, ma in primo luogo come colui che parla e agisce per conto di Dio.4.

La domanda sull’identità di Gesù appare, come abbiamo visto, prima di tutte le dimensioni del ministero di Gesù: la sua parola, le sue azioni, i suoi miracoli, la sua solidarietà con i peccatori, la sua pretesa di perdonare le offese fatte a Dio: il peccato.

Però appare anche, in modo straordinario, negli uomini e nelle donne con cui Gesù si incontra personalmente. Conviene approfondire questo tema, centrale nella vita di Gesù… e nella nostra vita, poiché costituisce un paradigma del nostro incontro personale con il Signore.

Gesù si incontra con ogni tipo di persona , e per tutti è una persona “molto speciale”; a cominciare dai bambini, che lo avvicinano perché li accarezzi e li benedica (cfr. Mt 19 , 13-15 e par.) causando la sorpresa dei discepoli e l’ indignazione del Signore. A coloro che gli si avvicinano sperando la guarigione dalle loro malattie, concede loro molto di più: si sentono amati personalmente da Dio, ricevendo non solo la salute fisica, ma anche la salvezza (cfr. Lc 17 , 11-19: i dieci lebbrosi; san Agostino commenta: tutti hanno ricevuto la guarigione, solo un uno – uno straniero – la salvezza …). In uno dei suoi primi miracoli, quando gli hanno presentato un paralitico, Gesù, teneramente, gli dice: “Coraggio, figlio, abbi fiducia, i tuoi peccati ti sono perdonati ” (Mt 9 , 2 , Mc 2 , 5); a una donna malata da molti anni – e certamente, più grande di lui -, la cui fede produce una “reazione psicosomatica” in Gesù, le dice anche: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata: va’ in pace e sii guarita dal tuo male” (Mc 5 , 25-34 , Mt 9, 22).

Potremmo continuare a parlare della sua compassione per il popolo, che sente abbandonato, “come pecore senza pastore” (cfr. Mt 15, 32), tanto da giungere a volte anche al pianto: dinanzi a Gerusalemme, pensando alla sua distruzione: (cfr. Lc 19, 41 ss.), o dinanzi alla morte del suo amico Lazzaro e al dolore delle sue sorelle Marta e Maria (cfr. Gv 11, 35); davanti alla chiusura dei capi del popolo, sente un misto di rabbia e di dolore (cfr. Mc 3, 5), e di fronte alla richiesta di segni da parte dei farisei, Gesù risponde “con un profondo gemito dal profondo del suo essere” (Mc 8, 12). La tenerezza con cui si rivolge alla vedova di Naim, che soffre per la recente morte di suo figlio, è struggente: «Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: ‘Non piangere!’. E accostatosi, toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: ‘Giovinetto, io ti dico, alzati!’. Il morto si levò a sedere e cominciò a parlare. Ed egli lo diede a sua madre “(Lc 7, 13-15).

La lettera agli Ebrei dirà, in modo impressionante: “Noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato” (Eb 4, 15).

L’evangelista Giovanni è colui che presenta in modo più approfondito questi incontri di Gesù: già dall’inizio, con lo sprezzante Natanaele, ha parole di apprezzamento (e forse un po’ di ironia), e questo breve incontro determina un radicale cambiamento in chi si sentiva “un vero israelita” (cfr. Gv 1, 47ss.). Più avanti, il dialogo con Nicodemo causerà una “nuova nascita” da parte del fariseo, membro del Sinedrio: dalla sua visita notturna (probabilmente per timore dei suoi colleghi), fino all’atteggiamento di coraggio di fronte alla morte di Gesù (cfr. Gv 19, 39). La guarigione di un cieco nato ci presenta uno straordinario cammino di fede, che inizia con il dono miracoloso di vista fisica, fino alla contemplazione del Signore con gli occhi della fede: ” ‘Io credo, Signore’. E lui , prostratosi, lo adorò”(Gv 9, 38).

Soprattutto nell’incontro con le persone che sentono che la loro vita è rovinata, non solo per il disprezzo degli altri, ma soprattutto per la loro lontananza da Dio a causa del peccato, Gesù mostra la sua profonda compassione e, allo stesso tempo, la sua più intima “esigenza”: offrire loro l’amore e il perdono di Dio, essendo, in pratica, il suo “rappresentante”. Con la samaritana, che aveva tutte le possibili controindicazioni, secondo la mentalità ebraica, perché Gesù le rivolgesse la parola, il Signore si mostra con una commovente bontà e misericordia, senza ignorare il suo passato: ma invitandola a cambiare la sua vita; tanto che, dimenticando la sua brocca, “corse in città” (Gv 4, 28) e diventò, così, la prima “evangelizzatrice”: “Molti samaritani di quella città credettero in lui (Gesù) per le parole della donna “(Gv 4, 39).

Nel Vangelo di Luca, troviamo un altro episodio commovente: Gesù, ospite in casa di un fariseo, riceve l’omaggio di amore e di gratitudine di una peccatrice pubblica, suscitando così lo scandalo del “giusto” fariseo Simone. E ‘ importante sottolineare, contro le interpretazioni superficiali o sbagliate, che la radice della conversione di questa donna si trova nella fede. Questo dettaglio mi sembra straordinario: è l’unica volta , al di fuori dei racconti di miracoli , in cui Gesù dice a una persona: “La tua fede ti ha salvato. Va in pace” (Lc 7, 50): l’incontro con Gesù ha provocato in questa anonima peccatrice l’esperienza di fede di sentirsi amata e perdonata da Dio, e per questo corrisponde con un “amore più grande” (v. 47): indicando, in tal modo, ciò che già appariva nella guarigione del paralitico: che il perdono dei peccati da parte di Dio è un’opera ancora più meravigliosa della guarigione miracolosa di una malattia fisica. Peccato che il fariseo si trinceri nel compimento della legge, chiudendosi così alla gratitudine dell’amore di Dio, non sentendosi “debitore”, e quindi, senza bisogno del perdono divino!

Questo ci ricorda senza dubbio quello che Joseph Ratzinger definisce “forse la più bella” delle parabole di Gesù: la parabola dei due fratelli e del Padre misericordioso (cfr. Lc 15, 11-32). Lo stesso san Luca ci racconta l’incontro di Gesù con il capo dei pubblicani di Gerico, Zaccheo: il sentirsi chiamato per nome da Gesù, lo fa sentire amato, in modo totalmente gratuito, da Dio stesso; e questo provoca un cambiamento così radicale in lui, che gli possiamo applicare le parole stesse di Paolo: “quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo” (Fil 3, 7). La scena finisce con le parole di Gesù: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo, perché il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19, 10).

Non possiamo non menzionare quello che è forse l’incontro più bello e “scandaloso” di Gesù, quello del quale dice, con una frase lapidaria, Sant’Agostino: “Si sono incontrati, faccia a faccia, la grande miseria e la grande misericordia”: l’incontro con la donna adultera, in Giovanni 8. E ‘importante far notare che, una volta che Gesù ha “ripulito il terreno”, non minimizza il peccato di questa donna, né in se stesso, né in relazione con gli altri; non dice, per esempio, “Hai visto? Gli altri sono più peccatori di te”; al contrario: solo allora lei prende coscienza della sua situazione unica e personale, dinanzi all’amore immenso e immeritato di Dio manifestato in Gesù, che egli chiama “Signore”: colui che da un momento all’altro le ha aperto un cammino nuovo e pieno di speranza, dopo essersi vista alle porte di una morte ignominiosa, “Nemmeno io ti condanno. Vattene, e non peccare più “(Gv 8, 3-11).

Infine, lo stesso evangelista ci presenta l’incontro finale di Gesù risorto con Pietro: Gesù non vuole rinfacciare all’apostolo il suo vergognoso tradimento: ciò che gli interessa è offrirgli il suo amore, e rinnovare. ancora una volta, la sua fedeltà: “Signore, Tu sai tutto,: Tu sai che ti amo “(Gv 21, 17).

Possiamo concludere questa parte della nostra riflessione sottolineando: in ogni parte, il suo modo di parlare “con autorità” e il contenuto del suo messaggio, incentrato sul Regno di Dio che è “Abba”, Padre; le sue azioni miracolose, la maggiore delle quali è il perdono dei peccati; i suoi incontri personali suscitano la domanda: “Chi è costui?”, domanda che è sempre orientata verso Dio. Gesù appare come il “luogo” in cui Dio manifesta il suo amore, il suo perdono e la sua salvezza. Non siamo lontani dalla frase che l’evangelista Giovanni ha messo in bocca a Gesù, durante l’ultima Cena : “Da tanto tempo sono con voi, e non mi conosci, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Una convinzione riflessa, in modo straordinario, nella 1ª Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita – poiché la vita si è fatta visibile, noi l’ abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1 Gv 1 , 1-3).

3.- “…abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e abbiamo creduto in Lui…” (1 Gv 4, 16)

Non possiamo restare qui, indubbiamente; sia rispetto la storia di Gesù, sia riguardo l’identità della nostra fede cristiana. Senza dubbio, la sua morte violenta in croce come bestemmiatore e criminale, screditato dai capi del popolo e apparentemente dallo stesso Dio, ha causato una crisi radicale in coloro che credevano in lui, a partire dagli stessi discepoli: “” Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele … “(Lc 24, 21).

A questo riguardo, il Rettor Maggiore scrive:

Per comprendere meglio cosa significa la Risurrezione di Gesù è necessario –paradossalmente- prenderne sul serio la morte (…) Non mi riferisco solo al fatto, totalmente reale, della passione e morte del Signore, ma anche a quel che implicava per la mentalità giudaica.

Per il popolo di Israele, Dio si manifesta attraverso gli avvenimenti della sua storia e della storia universale. Nel caso concreto di Gesù, la sua morte in croce significava, per un giudeo, che Dio non stava dalla sua parte: che non ne avallava la pretesa messianica e meno ancora la pretesa filiazione divina. Finché non si riflette su questo fatto, non si prende sul serio, dal punto di vista teologico, la morte di Gesù in croce. Di conseguenza, i discepoli di Gesù non si aspettavano più nulla dopo la sua morte: chi parla di ‘allucinazione’ o semplicemente dice che essi ‘videro quel che speravano di vedere’, oltre ad ignorare la concretezza delle persone del popolo, minimizza o persino ignora questo tratto fondamentale dell’israelita.5

Nella sua lettera sulla “Cristologia salesiana”, D. Pascual cita una bellissima omelia di Gerhard von Rad, che commenta l’incontro di Maria Maddalena con Gesù risorto. 6 A proposito dell’espressione: ” Maria stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva …”, il grande biblista tedesco scrive:

Maria, cari fratelli, aveva motivo di essere triste; sì, si può dire che in tutto il mondo non vi è nessun altro motivo più di questo, per essere così disperatamente triste: ha perso il Signore, Cristo. Lei aveva sentito la sua chiamata, aveva vissuto con lui, aveva trovato la serenità alla sua presenza, per poi finire tutto in una grande catastrofe. Si era rotta la sua speranza e la sua consolazione, il senso della sua esistenza, come ci piace dire oggi. Non era stato altro che un gioco, una bella illusione (…) Nessun altra delusione che possa sperimentare l’uomo nella tua vita può essere paragonata all’abbattimento e alla terribile delusione dei discepoli di Gesù dopo la sua morte7.

Solo prendendo sul serio la morte del Signore, possiamo basare la nostra fede cristiana sulla sua risurrezione, azione trinitaria per eccellenza: Dio ha risuscitato Gesù per la forza del suo Spirito. Non possiamo, ovviamente, trattenerci ad approfondire questo Mistero centrale della nostra fede, del quale dice San Paolo: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede: voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15, 17).

Invece, in relazione al nostro argomento, ci interessa sottolineare che la risurrezione di Gesù costituisce la chiave di lettura definitiva per comprendere sempre più pienamente, sotto la guida dello Spirito Santo, tutta la vita e l’azione di Gesù durante la sua vita pubblica (“pre-pasquale”).8

Alla luce della sua risurrezione, si va delineando, sempre più chiaramente, la risposta alla domanda: “Chi è costui?”. E così, sorgono due grandi linee, che vanno in qualche modo identificandosi:

- in Gesù “abitava” in pienezza, già dalla sua vita terrena, lo Spirito di Dio. Così lo annunzia Pietro, nella casa del centurione Cornelio: “Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10, 37-38).

- Nello stesso tempo, e non solo come continuazione della precedente maniera di intendere il mistero di Gesù, va prendendo forma la convinzione che Gesù è l’inviato del Padre: una convinzione della comunità primitiva che si manifesterà già matura nel vangelo di Giovanni, però che appare molto precocemente (contrariamente a ciò che alcune correnti esegetiche e teologiche sostengono). Circa il testo neotestamentario più impressionante, l’inno che San Paolo presenta nella lettera ai Filippesi (Fil 2, 5-11), Martin Hengel (citato molte volte da Joseph Ratzinger nella sua opera su Gesù di Nazaret) scrive:

In occasione della festività della Pasqua dell’anno 30 un giudeo di Galilea viene crocifisso a Gerusalemme sotto l’accusa di avere avanzato pretese messianiche. All’incirca 25 anni dopo, Paolo, un tempo fariseo, in una lettera indirizzata ai membri della comunità messianica da lui fondata nella colonia romana di Filippi cita un inno avente per oggetto questo Crocifisso (…) La discrepanza tra la morte infamante di un delinquente politico giudeo e quella professione di fede, che presenta questo giustiziato con i tratti e la natura di un Dio preesistente che si fa uomo e si umilia fino alla morte d’un servo, questa che, a quel che mi resulta, ha costituito anche per il mondo antico una discrepanza priva di riscontri analogici, getta la sua luce sull’enigma della genesi della cristologia nella chiesa primitiva (…) Onde si ha la tentazione di affermare che nel giro di neanche due decenni il fenomeno cristologico è andato incontro ad un processo le cui proporzioni sono maggiori di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli, fino al compimento del dogma della Chiesa antica.9

Il processo al quale alludeva Hengel, che porterà alle grandi dichiarazioni dogmatiche dei Concili dei primi secoli della Chiesa, è troppo complesso per poterlo sintetizzare in poche parole. Ciò che possiamo dire è che la domanda sul mistero del vero Dio e sull’identità più profonda di Gesù vanno totalmente unite: ancor più, sono interdipendenti, dal momento che, come dice San Giovanni nella sua prima lettera, “abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi e crediamo in lui. Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui ” ( 1 Gv 4 , 16). Non si tratta di una “definizione filosofica” astratta su Dio, ma , come dice Eberhard Jüngel 10, è la sintesi più perfetta dell’ “evento Cristo”. Da un lato, cresce sempre più la convinzione che “Gesù non può non essere Dio”, se prendiamo sul serio che ci ha rivelato, in forma definitiva, il volto del vero Dio, l’amore di un Dio che è “Abbà” “Papà”; ma, proprio per questo motivo, non è possibile ignorare che il segreto più profondo della sua esistenza è appunto quella di essere Figlio (per cui , “diverso” da Dio): “Se mi amaste , vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me “(Gv 14 , 28). D’altra parte, il “protagonista” della Chiesa primitiva è lo Spirito Santo, che Gesù risorto ha inviato da parte del Padre; e come dicevano i grandi Padri della Chiesa greca, “come potrebbe santificarci/divinizzarci lo Spirito Santo, se egli stesso non è Dio?”. Certo, nemmeno lo Spirito Santo è il Padre. Questo apparente impasse è stato fonte di molte speculazioni eretiche, fino a giungere alla definizione dogmatica nei Concili di Nicea ( 325 ) e di Costantinopoli (381) .

La verità centrale della nostra fede, il Mistero di un Dio Trino e Uno, che è Amore nella perfetta unità di Padre, Figlio e Spirito Santo, ha la sua radice più profonda nel mistero di Cristo, il Figlio di Dio fatto Uomo. Finisco questa parte con un bellissimo testo di un grande teologo cattolico belga, il domenicano Edward Schillebeeckx:

Il Dio vivente non è dunque che l’Infinito, l’Incomprensibile? Non potremo mai indicarlo a dito in questo mondo e dire: Dio è là?

Quando i bambini fanno corona al presepio ed esclamano con gioia: ‘guarda l’asinello’, ‘e la stella’, ‘oh, i re magi coi loro doni’, ‘e i cammelli’, ‘e Gesù Bambino”…, il credente china la testa: ‘…Dio è là’. Lui, il Dio vivente, sa che la sua presenza infinita, che tutto comprende e che da tutto traspare, è profondamente oscura per l’uomo, il quale desidera per questo trovarlo in qualche luogo al proprio livello, mostrarlo a dito, poter suggerire in qualche modo a quelli che lo cercano: ‘fuoco!’, ‘acqua!’, come fanno i bambini quando giocano, a seconda che uno si avvicina o si allontana dall’oggetto cercato. Dio conosce il cuore umano. L’infinito si è fatto finito nel Cristo Gesù. Adesso Dio è in mezzo a noi sotto una forma finita, sotto una forma che noi possiamo veramente incontrare: nella casa del pubblicano Zaccheo, presso il pozzo di Giacobbe o sulla cima di quel monte; ieri, egli è venuto qui, oggi è partito per Gerusalemme. Egli è nel tempio o nell’orto, a sud della città. Egli è là… sulla croce. Noi non possiamo concepire pienamente la presenza incommensurabile di Dio che quando essa si ‘temporalizza’ secondo i nostri limiti, quando viene a stabilirsi accanto a noi, prendendo un volto e parlandoci, quando viene a vivere al nostro fianco così che si possa avvertire come un uomo, ma come un uomo che non si era mai visto.

In verità, tutto ciò non elimina il mistero di Dio. Neanche il Cristo ci ha mostrato Dio talmente in se stesso, da sopprimerne il mistero. Certo, egli ci ha mostrato Dio, ma ha soprattutto mostrato quel che è un uomo totalmente consacrato a Dio, al Padre invisibile11.

4.- “…se ci amiamo l’un l’altro, Dio rimane in noi” (1 Gv 4, 12)

Ricapitolando l’itinerario della nostra riflessione, abbiamo cercato di percorrere il cammino della Chiesa, dal primo incontro con Gesù di Nazareth, il predicatore itinerante della Galilea, mettendoci al posto dei suoi contemporanei. E’ necessario adesso ritornare alla nostra realtà attuale, spero arricchiti di questo viaggio nello spazio e nel tempo, per chiederci: come possiamo essere discepoli e testimoni del ‘Dio di Gesù Cristo’, oggi? E più specificatamente: come possiamo esserlo, in quanto Famiglia Salesiana?

La Chiesa oggi ci invita a vivere un cammino di “nuova evangelizzazione”. Molte volte, erroneamente, si intende questa “novità” come rifiuto del passato, mentre in realtà si tratta di rinnovare, cioè, tornare alle nostre radici, per riprendere l’impegno di essere testimoni e apostoli: inviati a dare testimonianza, con la nostra vita e con la nostra parola, dell’amore di Dio manifestato in Gesù. Mi sembra –come una opinione molto personale- che i tempi in cui viviamo, certamente molto diversi rispetto a qualsiasi epoca del passato, paradossalmente ci presentano la stessa sfida della comunità primitiva: presentare un Dio “credibile”, a partire dalla radicale umanità del Signore. A questo proposito, ci orienta una frase geniale di sant’ Agostino: Per hominem Christum tendis ad Deum Christum12.: “Per mezzo dell’Uomo Cristo, tendi al Cristo Dio”. Mi pare che coincide con il programma del Santo Padre Francesco, come orientamento del suo pontificato. Considero che, anche tra noi cristiani, soprattutto riguardo i giovani, possiamo applicare quello che Steiner dice su Dostoievski, commentando la frase agostiniana: “A differenza di Tolstói, Dostoievski era ardentemente persuaso della divinità di Cristo, però questa divinità muoveva la sua anima e attirava la sua intelligenza con estrema forza attraverso il suo aspetto umano”13. No si tratta di “diminuire” l’esigenza cristiana, adattandoci con l’accettazione (molte volte più sentimentale che razionale) di un Gesù, “Uomo perfetto”; ma piuttosto di indicare il possibile punto di partenza, soprattutto per coloro che sono lontani dalla Chiesa e anche da Dio, forse perché rigettano – con una certa ragione – un’immagine non adeguata del Dio di Gesù Cristo: sono il primo a dire che essere cristiano è credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato.

Si si replicasse che sembra troppo “secolare” questo punto di partenza, bisognerebbe ricordare la stessa parola del Signore: “In questo conosceranno tutti che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13, 35): non allude a nessun aspetto “religioso” o dogmatico, ma alla prassi concreta dei cristiani.

La realtà umana e storica di Gesù, in quanto Figlio di Dio fatto Uomo, implica anche il suo collocamento nello spazio e nel tempo. Dall’ascensione, la sua presenza reale e viva tra noi è oggetto di fede (incluso la sua presenza eucaristica): ora non lo vediamo, non lo udiamo, non lo tocchiamo, come lo hanno fatto i suoi contemporanei in Palestina. Come continua, allora, il piano di salvezza di Dio nel nostro mondo? Di nuovo Dio diventa semplicemente il Dio inaccessibile, l’ “Abisso insondabile” del quale parlavano gli gnostici?

In due occasioni, san Giovanni utilizza una frase terribile: “Dio nessuno lo ha mai visto” (Gv 1, 18; 1 Gv 4, 12). Certamente, in ambedue i casi la forza di questa espressione è funzionale all’accentuazione della contrapposizione che segue. La prima volta dice: “…il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, ce lo ha manifestato” (Gv 1, 18). Invece, la seconda volta aggiunge: “se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore giunge in noi alla perfezione” (1 Gv 4, 12). Che meraviglia constatare che la stessa missione di Gesù è la missione della Chiesa, di tutti quelli che ci chiamiamo cristiani; e, nella Chiesa, con un metodo specifico e dei destinatari preferenziali, è la missione della Famiglia Salesiana, che ci ha lasciato, come preziosa eredità, san Giovanni Bosco.

In certo senso, dovremmo anche poter dire, con Gesù e come Lui: “Chi vede noi, come comunità che vive nell’amore e che promuove la fraternità nella costruzione del regno, vede Dio”. Questo è il senso più profondo di quella che il Rettor Maggiore ci ha dato in questo anno, 2014, come Strenna: “la gloria di Dio e la salvezza delle anime”.

La “gloria di Dio” non ha nulla a che vedere con un trionfalismo obsoleto, e ancor meno con un orgoglioso “narcisismo” divino. Partendo dalla etimologia della parola, sia in ebraico che in greco (kabod-doxa), indica il desiderio che Dio si faccia sentire nel nostro mondo, si manifesti in modo visibile, udibile, palpabile. Lo ha fatto già, una volta per tutte, in Gesù Cristo; e ci invita a continuare questa affascinante missione. Forse più di una volta abbiamo sentito, dalle labbra di una persona: “Non posso credere in Dio, perché io non l’ho mai visto, né mi sono incontrato con Lui”; invece di rimproverarlo, o dare una lezione di teologia sulla invisibilità e inaccessibilità di Dio, non dovremmo pensare che, in fondo, stanno rinfacciando a noi cristiani di non compiere la missione che Gesù ci ha affidato?

Sant’Ireneo l’ha detto, in modo insuperabile: “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. Tradotto salesianamente, suonerebbe così: “La gloria di Dio è che i nostri giovani, soprattutto i più poveri e abbandonati, abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza (= la salvezza delle anime)”.

5.- Conclusione

La contemplazione di Gesù, nella sua radicale umanità, nella quale manifesta al massimo l’Amore di Dio nel condividere in tutto la nostra esistenza, non può non culminare che contemplando Colei che ha reso possibile, per opera dello Spirito Santo, l’Incarnazione: la Beata Vergine Maria. Se san Giovanni ha potuto dire: “Quello che abbiamo visto, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo toccato …”: in un modo unico può dirlo colei che gli ha dato la carne della sua carne e il sangue del suo sangue.

C’è un testo toccante, anche se poco conosciuto, che descrive questa vicinanza unica di Maria con Gesù: nientemeno che di Jean-Paul Sartre, in un’opera teatrale composta in un campo di concentramento a Treviri, nel 1940, della quale René Laurentin dice: “Sartre, ateo dichiarato, mi ha fatto vedere meglio di chiunque altro, se io escludo i Vangeli, il mistero del Natale”14.

Quello che bisognerebbe dipingere, del suo volto, è una meraviglia ansiosa che appare solo una volta in una figura umana, perché il Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto del suo ventre. Ella lo ha portato per nove mesi, gli donerà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. Ma, per il momento, la tentazione è tanto forte da farle dimenticare che egli è Dio: lo serra tra le sue braccia, lo chiama: ‘Piccolo mio!’. Ma, in altri momenti, essa resta interdetta e pensa: ‘È Dio!’. (…) Ma io penso che vi sono altri momenti, rapidi, sfuggenti, nei quali lei sente insieme che Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è anche Dio. Ella lo guarda e pensa: ‘Questo Dio è il mio bambino, questa carne divina è la mia carne, è fatta di me stessa, ha i miei occhi, e questa forma della sua bocca è la forma della mia bocca. Mi rassomiglia’. Nessuna donna ha ricevuto il suo Dio tutto per sé, in questo modo: un Dio tanto piccolo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e ride. Ed è in uno di questi attimi che io ritrarrei Maria, se fossi pittore. E cercherei di rendere l’aria di coraggio tenero e timido con cui protendeva il dito per toccare la dolce pelle di quel piccolo Bambino-Dio, di cui sentiva sui ginocchi il piede tiepido, e che le sorrideva15.

Tuttavia, non possiamo fermarci qui: qui inizia un cammino di fede così profondo, così radicale e – non possiamo negarlo – tanto doloroso, come nessun altro credente ha vissuto. Questa vicinanza, unica, di Maria con Gesù non sostituisce la sua fede, ma al contrario: la esige, sempre più incondizionata, nella misura in cui la realtà sembra che vada sgretolando le attese umane, materne, ebree di Maria, fino a giungere al momento culminante: la croce. Il Rettor Maggiore scrive: “Nel momento cruciale della vita di Gesù (…) troviamo Maria ai piedi della croce: si tratta di tre versetti d’una densità sorprendente (Gv 19, 25-27). (…) Oso riferire alla Madre del Signore l’espressione del vangelo di Giovanni (Gv 3, 16) riguardo a Dio Padre: “Maria ha tanto amato il mondo, da dargli il proprio Figlio”16.

La Santissima Vergine Maria Immacolata Ausiliatrice è il nostro Modello nella realizzazione della nostra Missione Salesiana: portare Gesù a tante ragazze e ragazzi, a tanti nostri fratelli e sorelle, in ogni parte del mondo, che ci supplicano: Vogliamo vedere Gesù! (Gv 12, 21).